Tre anni massacrato dal padre dopo essere stato adottato

Ultima modifica 24 Agosto 2016

elisabetta

La notizia è di quelle raccapriccianti perché l’omicidio di un bambino, sempre che di omicidio si tratti perché la questione è ancora tutta da verificare, è sempre una cosa che mette i brividi. Quando poi si aggiunge la parola “adottivo”, tutto prende un significato diverso.

La storia è questa: Brian Patrick O’Callaghan e sua moglie Jennifer avevano adottato un bimbo nel mese di ottobre. Doveva essere l’inizio di una nuova vita per Hyunsu, così si chiamava questo bimbo nato in Corea, vita che purtroppo si è interrotta forse nel modo più brutale.

Aveva solo tre anni ed era in questa famiglia della tranquilla provincia americana in una cittadina del Maryland, in cui viveva con i nuovi genitori e un nuovo fratellino di sette anni solo da pochi mesi. Sembra che il bambino sia stato picchiato in modo scientifico dalla testa ai piedi dal padre, un ex Marine che ha operato in Iraq e in Kosovo,  dipendente della National Security Agency, specializzato proprio nella Corea del Sud, paese di origine del piccolo.

L’uomo, invece, sostiene che  il piccolo si è procurato una ferita a una spalla cadendo all’indietro nella doccia, di averlo messo a dormire  e che, quando si è svegliato, ha iniziato a soffrire  di vertigini e ha cominciato a vomitare. All’arrivo in ospedale, però, i medici si sono trovati di fronte a una situazione critica, ben poco compatibile secondo il loro parere con il racconto del papà. Poche ore dopo il piccolo è deceduto per le ferite riportate.

Viene spontanea la domanda: “ma che cavolo sei andato a prenderlo a fare questo bambino se poi non lo volevi accogliere  veramente?”. Qui non c’è neanche la situazione della mancata genitorialità, data la presenza di un figlio biologico.

Secondo me, le domande vanno fatte su questioni precedenti a  questo. Chi ha valutato la famiglia in questione? È polemica nota di come le adozione negli Stati Uniti siano fatte in maniera differente che negli altri paesi e che siano un po’ troppo “facili”, dove il denaro arriva a monetizzare il bambino e dove i tempi di attesa sembra siano ben diversi da quelli dei paesi europei.

Però questa è “vox populi”. Io non conosco la realtà americana e ritengo che, anche in questo paese, le situazioni siano differenti a seconda dei casi. Ad ogni modo, dietro l’accaduto c’è una inefficace valutazione della famiglia adottante, sempre che anche negli States facciano le valutazioni di coppia prima di dare la possibilità di adottare. Non si è valutata la reale disponibilità della famiglia all’accoglienza, la stabilità emotiva del nucleo dove si andava a inserire un nuovo “elemento”.

Ma c’è anche la possibilità che sia insorta quella che si chiama depressione post-adozione, una patologia simile a quella che si verifica nel post-partum, dove i sintomi depressivi, il senso di inadeguatezza e l’enorme impegno che comporta il nuovo arrivato, fanno evolvere la situazione in maniera così pesante da far andare il corto circuito più di una persona. Certo, si vede raramente negli uomini, ma la situazione adottiva non è un percorso che è appannaggio della sola figura materna, nel senso che non c’è una pancia che sparisce e una serie di ormoni in tumulto come per la gravidanza biologica. Anche i padri vengono coinvolti in egual maniera e quindi più facili alla patologia.

Manca come sempre, e come dappertutto, un percosso post adottivo veramente valido, che sappia sostenere la coppia nel momento di maggior bisogno. Poi, sul caso specifico non mi sbilancio perché tutto è da verificare, tutto ancora da accertare e fare processi senza essere a conoscenza dei particolari processuali, a mio parere, è un errore.

Troppa la facilità a creare “il mostro”, etichettare una persona è molto facile, ma smontare poi un castello di accuse che magari si sono rivelate false, quasi impossibile. Poi, almeno in America, sei innocente fino a prova contraria.

Elisabetta Dal Piaz

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